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Corte d'Appello di Bologna > Licenziamento orale e dimissioni
Data: 17/07/2003
Giudice: Benassi
Tipo Provvedimento: Sentenza
Numero Provvedimento: 176/03
Parti: Pietro M. / Cesari Costruzioni s.r.l.
DIMISSIONI O LICENZIAMENTO: RIPARTIZIONE DELL'ONERE DELLA PROVA


Un lavoratore che assumeva di essere stato licenziato oralmente e che il suo datore di lavoro aveva utilizzato una lettera di dimissioni di cui disconosceva la sottoscrizione - e che comunque asseriva essere stata eventualmente rilasciata "in bianco" - conveniva in giudizio avanti al Pretore del lavoro di Bologna la società producendo in giudizio una registrazione telefonica. Il datore di lavoro ne disconosceva il contenuto ed il Tribunale (nel frattempo succeduto all'Ufficio del Pretore soppresso) non ammetteva la richiesta CTU e respingeva il ricorso. Osservano i giudici bolognesi che, secondo la costante giurisprudenza della Suprema Corte (Cass. n. 12520/00; n. 2162/00) il lavoratore che agisca in giudizio ha l'onere di provare l'esistenza del licenziamento medesimo (e non la sola circostanza della cessazione di fatto del rapporto), anche se "la mancata prova del licenziamento, peraltro, non comporta di per sé l'accoglibilità della tesi (…) della sussistenza delle dimissioni del lavoratore o di una risoluzione consensuale e, ove manchi la prova adeguata anche di tali atti estintivi, deve darsi rilievo agli effetti della perdurante sussistenza del rapporto di lavoro, per quanto di ragione (in relazione anche al principio di non maturazione del diritto alle retribuzione in difetto di prestazioni lavorative, salvi gli effetti dell'eventuale mora credendi del datore di lavoro rispetto alle stesse)". In altri termini in caso di dubbio tra licenziamento orale e dimissioni "l'indagine del giudice deve essere rigorosa (…) e tenere adeguato conto del complesso delle risutanze istruttorie significative ai fini in esame, in relazione anche all'esigenza di rispettare non solo il primo comma dell'art. 2697 cod. civ., relativo alla prova dei fatti costitutivi del diritto fatto valere dall'attore, ma anche il secondo comma, che pone a carico dell'eccipiente la prova dei fatti modificativi o estintivi del diritto fatto valere dalla controparte". E' quindi errato ritenere sussistere delle dimissioni solo per la ritenuta insufficiente prova del licenziamento (v. Cass. n. 7839/00). Nel caso concreto, peraltro, la Corte ha ritenuto provate le dimissioni, sia perché a seguito del disposto giudizio di verificazione sulla lettera di dimissioni prodotta dall'azienda il CTU aveva accertato che la firma doveva ritenersi autografa; sia perché un impiegato aveva testimoniato di aver visto il dipendente sottoscrivere la lettera; sia perché, al contrario, l'ipotesi del licenziamento in forma orale non aveva trovato alcun sostegno istruttorio




Corte d'Appello di Bologna > Licenziamento orale e dimissioni
Data: 03/05/2005
Giudice: Benassi
Tipo Provvedimento: Sentenza
Numero Provvedimento: 57/05
Parti: Maria A. + altri / Provveditorato agli Studi di Forlì
DIMISSIONI ESTORTE: EQUIPARAZIONE A LICENZIAMENTO ILLEGITTIMO: INSUSSISTENZA. – NECESSITA’ DI ESPLICITA RICHIESTA DI ANNULLAMENTO DELLE DIMISSIONI. VIOLENZA MORALE - PRESUPPOSTI – NECESSITA’ CHE LA MINACCIA SIA DIRETTA A CONSEGUIRE UN VANTAGGIO INGIUSTO.


Un lavoratore che aveva ricevuto una contestazione disciplinare per essersi introdotto nottetempo in azienda, senza autorizzazione, lamentava di essere stato costretto – sotto l’alternativa di subire un licenziamento e minaccia di trasformazione di un esposto nel frattempo presentato ai Carabinieri in denuncia – a firmare una lettera di dimissioni già predisposta. Ritenendo l’atto nullo si presentava successivamente in azienda con testimoni per offrire la sua prestazione lavorativa, ma veniva respinto; impugnava quindi il licenziamento avanti al Tribunale del lavoro di Bologna, che respingeva il ricorso per non aver il lavoratore dedotto specifici capitoli di prova volti ad accertare la nullità o annullabilità delle dimissioni. Essendo anzi risultata provata la fondatezza delle contestazioni disciplinari, per il giudice di primo grado non poteva costituire violenza morale la minaccia di far valere il diritto di licenziamento. Tale tesi è stata sostanzialmente accolta dalla Corte d’Appello, che ha parimenti respinto il ricorso proposto dal lavoratore, sul presupposto, come recentemente affermato da Cass. n. 15327/04, che dimissioni e licenziamento costituiscano fatti giuridici diversi e contrapposti, che presuppongono due indagini diverse in fatto, e connotate da diverse regole di giudizio funzionali alla distribuzione degli oneri probatori (cfr. anche Cass. n. 3299/85). Non è quindi giuridicamente fondata l’equiparazione ad un licenziamento illegittimo delle dimissioni estorte con la violenza, sia per quanto concerne l’onere della prova, sia in relazione alle conseguenze risarcitorie. Il lavoratore che avesse ravvisato la violenza morale, quindi, avrebbe dovuto chiedere l’annullamento delle dimissioni secondo la disciplina propria della relativa azione stabilita dagli articoli 1441 e seguenti del codice civile, con l’ulteriore corollario che va applicato il principio generale dell’onere della prova sancito dall’art. 2967 cod. civ. e non quello previsto, in tema di licenziamento, dall’art. 5 della legge n. 604/66. Pur non avendo nel caso di specie il lavoratore proposto tale domanda, il Collegio affronta, per ragioni di completezza, anche la questione relativa all’asserita esistenza della violenza morale, richiamando la consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione (fra le tante Cass. n. 15926/04; n. 6577/03; n. 324/03; n. 5154/99; n. 6426/96) secondo cui può aversi l’annullamento delle dimissioni solo qualora venga accertata l’inesistenza del diritto del datore di lavoro di procedere al licenziamento per insussistenza dell’inadempimento addebitato al dipendente perché, in questo caso, con la minaccia del licenziamento il datore di lavoro persegue un effetto non raggiungibile con il legittimo esercizio del proprio diritto di recesso. E’ in ogni caso sempre necessario che la minaccia sia specificamente diretta ad estorcere la dichiarazione negoziale della quale si deduce l’annullabilità e risulti di natura tale da incidere, con efficacia casale concreta, sulla libertà di autodeterminazione dell’autore di essa (v. Cass. n. 16179/04; n. 12693/02; n. 14621/99). Il giudice è tenuto quindi a valutare, oltre all’obiettiva natura intimidatoria o meno dell’invito alle dimissioni, anche, in modo compiuto ed approfondito, le modalità fattuali del comportamento tenuto dal datore di lavoro. Applicando tali criteri la Corte d’Appello ha escluso, nel caso di specie, l’applicabilità dell’art. 1438 cod. civ. secondo cui “la minaccia di far valere un diritto può essere causa di annullamento del contratto solo quando è diretta a conseguire un vantaggio ingiusto”, in quanto la minaccia di esercitare il diritto di recesso ha rappresentato il legittimo esercizio di un diritto. Conseguentemente ha respinto l’appello